Riflessioni sulla pratica

di Daniel Leclerc.

 Si sente spesso dire che la tecnica è solo un mezzo e non un fine; ma allora se la tecnica non è un fine bisognerebbe chiedersi qual’è il fine della tecnica.. L’Aikido (come anche la Spada) è innanzitutto una pratica che attraverso l’utilizzo del corpo ricerca l’armonia, il movimento e la coordinazione, ed è lo strumento che ci permetterà entrare in relazione con l’altro muovendosi necessariamente in accordo con le Leggi ed i principi dell’Universo, sia fisicamente che mentalmente. La pratica è caratterizzata da tre aspetti fondamentali: fisico, intellettuale ed emozionale. In primo luogo bisogna precisare che non esiste una reale separazione tra questi tre aspetti che al contrario sono indissociabili; una pratica solo fisica o solo intellettuale, oppure solo emozionale, porterà infatti ad uno squilibrio nella crescita del praticante.

La pratica fisica

E’ la più essenziale, concreta ed evidente, il che non significa però che sia la meglio compresa in quanto è basata sullo studio del movimento nel doppio ruolo di Tori e di Uke (Shidachi ed Uchidachi nella Spada). Uno dei primi obiettivi del praticante dovrebbe quindi essere quello di far acquisire al proprio corpo il movimento attraverso la ripetizione continua in modo tale che il corpo possa imparare a muoversi in accordo con i principi su cui si fonda la Disciplina. E’ solamente quando potrà muoversi in armonia a questi principi che incomincerà a sentire la fluidità e la sicurezza della sua pratica, avendo acquisito la capacità di muoversi naturalmente senza che si debba prestare loro attenzione e senza dover riflettere.

In realtà lo studio della tecnica non è mai realmente dimenticato, e lo prova il fatto che anche i più grandi virtuosi continuano a ripetere regolarmente gli esercizi di base, ed un praticante di Arti Marziali non deve mai smettere di praticare e di ripetere sia come Tori quanto come Uke; magari con il passare del tempo l’età potrà non aiutare particolarmente (soprattutto per il ruolo di Uke) ma anche in questo caso la padronanza fisica dei principi dovrebbe permettere al praticante meno giovane di rimanere sul tatami serenamente anche in età avanzata. Con il termine intelligenza del corpo si intende quell’istinto che viene sviluppato con la ripetizione continua e che consentirà di reagire ad uno stimolo ancora prima che il cervello abbia avuto il tempo di ragionare sulla situazione. Se vuole poter continuare a praticare il più a lungo possibile il praticante deve prima o poi porsi delle domande sul movimento che esegue, la sua ragione di essere ed il suo senso. La mera ripetizione meccanica di un gesto non garantisce in effetti che il corpo sarà automaticamente educato bene. Ciò per almeno due ragioni:

1)      Il modello del movimento da riprodurre deve essere perfetto. L’Arte Marziale si scrive con le leggi fisiche e della biomeccanica. Si potrebbe dire che lo studio dei movimenti (delle tecniche) per un praticante di Arti Marziali è paragonabile a quello delle note e dello studio del solfeggio per un musicista.

2)      Posto che l’essere umano abbia la capacità innata di riprodurre un gesto per imitazione (secondo la teoria dei neuroni a specchio) ci si chiederà allora perché non pratichiamo tutti come i grandi Maestri. Anche supponendo che il modello sia perfetto niente può garantire che l’allievo avrà la capacità di vederlo e di riprodurlo correttamente; i gesti che riprodurrà per imitazione all’inizio della sua pratica si discosteranno dunque da quelli del modello e, con molta probabilità, il corpo ripeterà dall’inizio dei movimenti scorretti senza nemmeno rendersene consciamente conto. La nostra incertezza nel percepire un movimento e nel tentare di riprodurlo fedelmente, associata alla nostra ancora limitata competenza nel valutare il modello che abbiamo sotto gli occhi, ci dà quindi la quasi certezza che i primi anni di pratica verranno spesi ad insegnare al nostro corpo dei movimenti non perfettamente corretti, passando così il resto del tempo di pratica a correggere gli errori ed a “ri-imparare a camminare”…. J. In un ambiente di carattere specificamente sportivo la pratica agonistica è uno dei mezzi pedagogici che può condurre all’acquisizione di questa intelligenza corporea in quanto essa si basa su un allenamento fisico intenso e regolare che permetterà di modellare strutturalmente il corpo in modo tale, che alla fine, risponda alle esigenze atletiche dello sport considerato.

La didattica in ogni disciplina corporea - e le Arti Marziali ne fanno parte - si basa sulla ripetizione fisica dei movimenti che porterà al corpo ad agire istintivamente; esiste però una differenza fondamentale tra un “Do” ed uno sport: il loro scopo. Il primo è un sistema per migliorare l’uomo inteso nel senso più ampio del termine mentre il secondo mira principalmente a migliorare le sue performance. La motivazione di un praticante per fargli accettare un’ora o più di faticosi suburi è a questo punto d ricercarsi nelle proprie personali motivazioni… Se bastasse però solamente l’allenamento per sviluppare la propria crescita tutti diventerebbero automaticamente dei Maestri (è anche vero però che tutti i grandi Maestri hanno, in un momento del loro percorso, allenato seriamente il loro corpo), non essendo però così sembra quindi evidente che il praticante non può accontentarsi del solo lavoro corporeo per afferrare i principi della propria disciplina. Uno dei mezzi di cui dispone è fare appello alla sua capacità di ragionamento e di discernimento: l’aspetto intellettuale della pratica.

La pratica intellettuale

Come abbiamo visto lo studio della tecnica non può limitarsi alla riproduzione della forma la quale ne è solo la sua rappresentazione coreografica; più questa sarà semplice più sarà facile da riprodurre e da trasmettere senza subire alterazioni; la forma è però solamente la manifestazione fisica di un principio ed ognuno deve prestare attenzione a non prendere il dito che mostra la luna per la luna stessa. Per introdurre questo aspetto “intellettuale” della pratica bisogna precisare che non si tratta solo della curiosità naturale che porterà il praticante ad interessarsi alla cultura legata alla sua disciplina, né di una semplice accumulazione di conoscenze, ma piuttosto di una ricerca, di uno studio teorico e speculativo sul movimento. La pratica intellettuale si baserà dunque sulle capacità cognitive per apprendere il movimento attraverso l’analisi, l’introspezione, la critica. In altre parole dovrà impegnarsi a definire il come ed il perché del movimento. In effetti, se l’insegnante alza un braccio girando su sé stesso l’allievo può limitarsi a ripetere all’infinito quello che ha visto persuaso di riprodurre fedelmente il movimento dimostrato, ad un certo punto però egli dovrà arrendersi all’evidenza del fatto che la sua azione non produce gli stessi effetti di quella dell’insegnante o del Sempai; l’imitazione estetica del movimento o della tecnica riguarda l’aspetto fisico della pratica ma un movimento non può essere studiato indipendentemente dal suo effetto ed il praticante, se intende proseguire nello studio, dovrà interrogarsi sul relativo processo fisiologico, biomeccanico, fisico, strutturale e pluridimensionale. Bisognerà visualizzare la traiettoria dell’attacco e dunque della sua energia cinetica per poterla annichilire (Irimi) o guidare (Tenkan); questa ricerca dovrebbe permettere di capire che il corpo umano funziona come una meccanica di alta precisione consentendo di effettuare dei movimenti straordinari se usato correttamente. Questo percorso intellettuale dovrebbe naturalmente accompagnare il praticante verso il grado di Shodan, cioè il livello nel quale il praticante ha dimostrato di aver acquisito la forma della tecnica; lo conferma il fatto che questo grado corrisponde ad un “inizio”; a questo punto il praticante saprà educare il proprio corpo. Questo processo si svolge essenzialmente in tre fasi: la prima legata alla percezione e quindi alla raccolta di dati, la seconda di rielaborazione ed alla sperimentazione, la terza di metabolizzazione e creazione. All’inizio la comprensione è ovviamente limitata ed il movimento che verrà riprodotto ne sarà la dimostrazione ma successivamente, con il miglioramento della comprensione, il corpo oramai correttamente istruito acquisterà sempre più fiducia e migliorerà le esecuzioni successive in un continuo processo di aggiustamento. Il praticante tuttavia dovrà stare attento a non lasciarsi sedurre dal “canto delle sirene”, in cui è facile compiacersi nella pratica intellettuale in quanto molto meno impegnativa fisicamente e meno stancante. Sono in molti a valutare il proprio livello marziale basandosi su questa sola comprensione, basta infatti girare un po’ negli stage per osservare che a parte qualche rara eccezione i praticanti sono più abili a spiegare che a dimostrare, ed ovviamente le loro spiegazioni molto spesso non sono all’altezza di ciò che sono in grado di dimostrare. Potremmo paragonare lo studio del Budo ad un puzzle: ogni pezzo corrisponde ad un Kihon (un movimento di base); il praticante sa che deve mettere tutti i pezzi al loro posto perché l’immagine sia completa e coerente (il suo lavoro sarà sicuramente facilitato se ha già un’idea dell’immagine finale che otterrà quando tutti i pezzi saranno assemblati). La sola differenza con un comune puzzle è che una buona conoscenza di ogni singolo pezzo permette di creare un numero infinito di immagini (forse è proprio questa la libertà di cui parlano i Maestri). Per molto tempo bisogna riprodurre l’immagine che ci viene proposta dall’insegnante e posizionare i pezzi secondo le sue indicazioni fino a quando avremo sviluppato la capacità di creare delle immagini personali e, successivamente, il metodo per riprodurle. Raggiungere la consapevolezza dei movimenti e del proprio corpo, nonché delle resistenze e dei gesti superflui nell’esecuzione di un movimento, fa parte di questa ricerca; si tratterà di lasciar dialogare corpo e mente al fine di eliminare le tensioni ed i movimenti inutili. Allo stesso tempo anche l’insieme di nozioni e concetti insiti nella pratica rientra in questo studio: la memorizzazione delle numerose nomenclature giapponesi (nomi dei kata, delle tecniche), la storia giapponese, lo studio del Bujutsu ed il suo sviluppo nel Budo,….

Conquistato il livello di comprensione fisica e intellettuale il praticante dovrebbe aver quindi raggiunto l’intelligenza del corpo; però ora sarà sufficiente che ci sia un’interferenza mentale per causare l’interruzione alla fluidità del movimento (il corpo sarà infatti costretto a ridurre la sua velocità a quella più lenta del cervello). Sarà a questo livello che la pratica emozionale comincerà ad avere un senso. Ciò non vuole dire che il praticante non si sia mai confrontato all’emozionale prima di ora, ma grazie alle maggiori comprensioni fisiche ed intellettuali acquisite saprà muovere correttamente il proprio corpo ed essere così in grado di affrontare, analizzare e capire le proprie emozioni (e le proprie paure). In possesso di un corpo ben allenato e consapevole il praticante può ora approfondire la pratica emozionale; ovvero come si comporterà un praticante ben preparato e consapevole di quello che ha imparato durante un combattimento simulato oppure su un campo di battaglia virtuale.

La pratica emozionale

Non si cercherà di analizzare l’insieme delle emozioni che ognuno di noi proverà praticando, in effetti la Disciplina passa necessariamente dal contatto fisico e ciascuno ha il proprio modo di reagire ad una presa/attacco/aggressione, anche se simulata e codificata. Il contatto potrà provocare, particolarmente nei principianti, una gamma di emozioni che si manifesteranno con delle reazioni fisiologiche involontarie, per esempio accelerazione dei battiti cardiaci, sbattere involontario delle palpebre, forti tensioni muscolari, sudorazione eccessiva,… Il contatto lo condurrà ad entrare in relazione con l’altro: aiutato dalla pratica fisica che gli consentirà una risposta tecnica adeguata e dalla pratica intellettuale che gli ha fatto capire “il come e il perché” egli sarà pronto a gestire queste reazioni emozionali affinché non disturbino il suo movimento. Queste reazioni emozionali sono tuttavia comuni a tutte le pratiche corporee dove ci sia un contatto fisico, eppure l’Arte Marziale possiede un modo diretto e specifico di farci entrare nelle nostre paure in quanto propone con il suo sistema di allenamento di avvicinare, studiare, capire e controllare la paura; per essere più precisi per familiarizzarne con l’idea senza dover necessariamente rischiare la vita. L’uomo non è psicologicamente programmato per entrare di sua spontanea volontà in un attacco ma al contrario la sua programmazione genetica lo spinge a fuggirne, la pratica marziale propone dunque un’alternativa a questo istinto di sopravvivenza insegnando che spesso è meglio affrontare un problema piuttosto che cercare di evitarlo, permettendo così di entrare progressivamente (anche se ovviamente in maniera limitata) nello stato emotivo che il praticante potrebbe provare se combattesse realmente per la propria vita. Questo approccio è progressivo e dipende dalla capacità di ricevere e di portare l’attacco fino al punto in cui Tori (o Shidachi) abbia paura per sé stesso ed Uke (o Uchidachi) paura di colpire Tori; non è raro infatti vedere l’attaccante interrompere la sua azione con la sensazione che, portandola a termine, avrebbe rischiato di colpire il suo compagno di pratica.

Esiste nella pratica con il Ken un esercizio di taglio a due (Kiri-Otoshi, il Chokusen Irimi in Aikido) nel quale la tecnica risulta efficace solamente se Shidachi lascia entrare Uchidachi a fondo nel suo attacco, fino a fargli credere che lo toccherà. Il praticante capirà in occasione delle esperienze emotive che vivrà durante il suo percorso marziale che ha bisogno di questa capacità se non vuole essere la vittima delle manifestazioni fisiologiche involontarie. Nel suo libro “Aikido”, Tamura Sensei lo esprime in questi termini: “Più importante è dimenticare il proprio corpo, entrare e trafiggere pensando di essere trafitto, entrare direttamente senza la minima esitazione. Spingete Aite con la vostra potenza mentale, fino a costringerlo ad attaccare; usando, prendendo il suo attacco, entrate!”

Bisogna riconoscere che il lavoro con le armi, forse in ragione del pericolo che rappresentano nell’immaginario popolare e per la loro potenziale maggiore pericolosità, è un eccellente modo per intraprendere, studiare ed affinare questo aspetto della pratica. Il lavoro di mettersi volontariamente in situazione di pericolo, cioè questa capacità di stare immobile ed impassibile fino al punto di non ritorno dell’attacco di Uke, permette di entrare in una nuova dimensione e permette altresì di valutare a quale punto i due precedenti aspetti della pratica siano tanto indispensabili… quanto inutili da soli. Per usare le parole di O’Sensei: “Non vi insegno come spostare i vostri piedi ma come muovere la vostra mente!”. E’ sicuramente innegabile che si comprende meglio quando si sa come muovere i piedi…

Raggiunto il momento in cui la sua pratica fisica, intellettuale ed emozionale è armoniosamente sviluppata ed equilibrata il praticante da un punto di vista marziale ha acquisito tutte le competenze che gli permetteranno di ingaggiare un combattimento con la probabilità di uscirne indenne. Il percorso marziale del praticante potrebbe finire qui, ovvero perfezionarsi mantenendo in equilibrio questi tre aspetti della pratica; lo studio dell’arte marziale infatti (Bu-Jutsu) si limita a questo: diventare sempre e sempre più efficace. Esiste tuttavia un’altra dimensione e la sua particolarità risiede nel fatto che non è obbligatoria né automatica e che non renderà il praticante più forte tecnicamente; il fatto di tralasciarla non gli impedirà dunque di progredire purché continui a praticare fisicamente, intellettualmente ed emozionalmente. 

E’ discrezione del praticante intraprenderla, consapevolmente o meno; essa è comune a tutte le discipline con il suffisso “Do” nel nome ed è perfettamente riassunta con queste parole del Buddha: “Il solo vero combattimento da ingaggiare è il combattimento contro sé stesso!”. Si tratta certamente di una nuova dimensione della pratica; l’arte marziale (Bu- Jutsu) si limita come funzione a migliorare le performance dei suoi adepti mentre le discipline marziali (Bu-Do) propongono invece al praticante di utilizzare il metodo marziale anche per perfezionarsi e diventare migliore dal punto di vista umano. Qui si può iniziare a parlare di pratica spirituale.

La pratica spirituale

Molte persone sono attratte dalle Arti Marziali Tradizionali anche a causa dall’aura Spirituale che le circonda. Per molti anni il praticante d’Aikido studia e sperimenta la “tecnica”, la quale gli proporrà una grande varietà di soluzioni per far fronte ad un’eventuale attacco. Quando il suo livello di pratica crescerà ed egli sarà capace di rispondere con efficacia a tutte le forme di attacco previste dalla pratica convenzionale la sua riflessione dovrebbe naturalmente condurlo a chiedersi di più sulla natura del suo studio. Incomincerà a percepire lo spazio ed il tempo tra l’intenzione dell’attacco e la realizzazione, perfino tra la non-intenzione e l’intenzione. Più la sua percezione si affinerà più comprenderà che può agire – e non più reagire – anche prima dell’attacco. La parola usata in Budo per definire questa capacità è Yoyu: il margine. 

La pratica però rischia di rimanere solo un modo di perfezionare la propria tecnica, mentre dovrebbe essere il mezzo per perfezionare il proprio essere; in effetti a cosa servirebbe essere più forti se non si diventa migliori? La “pratica spirituale” ricerca fondamentalmente la capacità di trasporre la nostra comprensione tecnica (fisica, intellettuale ed emozionale) nella vita quotidiana per cercare di gestire nel modo più armonioso possibile gli inevitabili conflitti a cui siamo esposti  dal nostro modo di vivere e di pensare. Tuttavia per riuscirci bisognerà sviluppare la capacità di rimettersi in questione. L’accrescimento delle capacità tecniche può, infatti, rischiare di lusingare l’ego, di tranquillizzare, gratificare e fortificare negativamente il praticante. Intraprendere lo studio di un’Arte Marziale significa anche ingaggiarsi consapevolmente a dichiarare guerra a sé stessi, all’ego con le sue strategie ed i suoi compromessi.

Onore-ni-Katsu (onore: se stessi, ni: preposizione dativa, katsu: vincere) è un concetto di fondamentale importanza nelle Arti Marziali ed è alla base di tutta la pratica del Budo, ma allo stesso tempo non è così frequente vederlo realizzato.

Negli sport, malgrado i criteri di parità, un avversario farà sempre qualcosa di più o qualcosa di meno di noi; in un caso si sarà battuti nell’altro caso si risulterà vincitori. 

Nella strategia militare un comandante che ha la responsabilità della vita dei propri uomini attaccherà il nemico solamente quando questi è debole, o apparentemente tale. Tuttavia quando il proprio avversario siamo noi stessi l’equilibrio è totale; sopraffare questo avversario rimane la vittoria più bella in quanto la lotta personale non è dipendente dalla fortuna o dalla sorpresa. E’ un combattimento diretto, sincero, faccia a faccia in quanto nel momento in cui ci confrontiamo con noi stessi abbiamo un avversario esattamente uguale a noi.. (tratto dal libro Ten - Jin- Chi di Pascal Krieger Sensei)

D. Leclerc